venerdì 15 giugno 2007

The dye is cast...

I have her secret deep within for years
I've had to hide
I've bought the clues
And now I'm hope
To bring the truth outside



I wait
I wait so patiently
I'm as quiet as a cup
I hope you'll come and rattle me
Quick!
Come
wake me up.



The dye is cast
The dice are rolled
I feel like shit
you look like gold.



Vi ricorda qualcosa?

"La pretesa di coniugare crescita e lotta ai cambiamenti climatici è l'ultima delle tante illusioni sul continente"

Finalmente qualcuno che ha le palle per scrivere quello che pensa, al di là di perbenismi preteschi. Vi posto un articolo del corriere, per chi volesse giungere direttamente al nocciolo della questione suggerisco di saltare direttamente agli ultimi due paragrafi, anche se l'articolo merita di essere letto interamente.


Le ricette sbagliate dell'Occidente per l'Africa

La mancanza di sviluppo ha un effetto positivo per l'ambiente
Chiunque abbia visto al cinema il film Amazing Grace («Stupenda Grazia», di Michael Apted), avrà rimarcato le numerose analogie tra la carriera di William Wilberforce, il politico britannico che capeggiò la campagna contro la tratta degli schiavi, e quella dell'attuale premier Tony Blair.
Come Blair, difatti, Wilberforce vedeva le proprie origini nell'Inghilterra del Nord. Anch'egli fu un mediocre studente di Oxbridge. Anch'egli non tardò a entrare in politica, ove la sua affabilità gli assicurò una rapida ascesa. E anch'egli fu fortemente influenzato dal movimento evangelico. La rivelazione dell'«amore infinito, tanto che Cristo è morto per salvare questo peccatore» fu per Wilberforce fulminante, all'indomani del suo ingresso in Parlamento. Ma (tra gli altri) l'ex mercante di schiavi — nonché compositore dell'inno «Amazing Grace» — John Newton lo convinse che poteva «servire entrambi»: la politica e l'opera di Dio. La metamorfosi morale che l'Inghilterra subì grazie al movimento evangelico, senza il quale la legge d'abolizione della tratta degli schiavi mai sarebbe stata approvata, riecheggia sin nei giorni nostri. Oggi, va da sé, la maggioranza degli inglesi prova un vago disagio di petto alla religione, e guarda con una certa incredulità alla passione degli americani per le letture bibliche. Ciò non toglie, tuttavia, che essi conservino l'autentico entusiasmo — d'ottocentesca memoria — per le crociate morali. Ai giorni nostri, come nel XIX secolo, l'Africa esercita una malia assai potente sulla sensibilità evangelica. Dev'esserci un quid di irresistibile, nel potersi sentire al contempo responsabili delle disgrazie del Continente («Prima ero cieco…») e capaci di risolverle («Ma ora vedo… »).
Il problema, va da sé, è che ogni generazione pensa di avere trovato la giusta soluzione. E, puntualmente, incassa una delusione. Wilberforce e i suoi gregari erano convinti che l'abolizione della tratta degli schiavi, e — in seguito — della stessa schiavitù, servisse a qualcosa. Ma i suoi frutti, ahimè, furono ben meno miracolosi di quanto i riformatori avessero sperato. Così, nel 1907 il grosso dell'Africa non stava tanto meglio rispetto al 1807. Occorreva tentare un'altra strada: quella dello sviluppo economico pilotato dallo Stato. Niente. Via con un altro esperimento, allora. Stavolta, la ricetta era l'indipendenza politica. Un'altra delusione. Sotto il profilo economico, nella gran parte dei Paesi in questione l'autogoverno arrecò addirittura più danni del regime britannico. Sicché, si decise di passare ai prestiti di denaro. Niente da fare.
Da ultimo, è stata la volta degli aiuti umanitari. Un nugolo di puri di cuore — guidato dal più evangelico degli economisti, Jeffrey Sachs — ancora continua a riporre fiducia nella politica degli aiuti, che — si sostiene — dovrebbero soltanto essere più mirati. Un esempio? La distribuzione gratuita, per dire, delle zanzariere anti-malaria. Ma gli economisti che conoscono l'Africa meglio di Sachs restano scettici. Nel suo libro The Bottom Billion, Paul Collier, professore di Economia a Oxford, spiega in termini più che esaustivi come i maggiori problemi che attanagliano l'Africa (fatti salvi quelli insanabili o quasi, quali la collocazione geografica) siano di natura politica.
È alle tirannie corrotte, e alle guerre civili endemiche che esse combattono tra loro, che va quasi interamente addebitato il ritardo economico dell'Africa post-coloniale. A chi desiderasse ulteriori dimostrazioni di quanto il problema sia radicato, basti scorrere l'ultimo, interessante rapporto del Global Peace Index, che stila una classifica di 121 nazioni sulla base di un'ampia serie di indicatori, dal livello della spesa militare al rispetto dei diritti umani. Otto degli ultimi 20 Paesi sono — manco a dirlo — africani. Sia detto chiaramente: prodigarsi in cancellazioni di debito o aiuti a regimi canaglia, com'è il caso dello Zimbabwe o del Sudan, o a Stati «falliti», come la Somalia e la Costa d'Avorio, equivale a un immane spreco di denaro. Soldi bruciati, ecco. Di contro, l'unico tentativo di intervento armato britannico, mirato a porre fine alla violenza in una delle ex colonie di Sua Maestà — la Sierra Leone, nel 2000 — ha sortito esiti sorprendenti. A fine anni '90, per dire, Freetown aveva registrato scene degne di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Ma quando, non molto tempo dopo l'intervento britannico, mi recai nel Paese, si poteva tranquillamente camminare per strada. Insomma, a Cesare quel che è di Cesare.
Fu Blair a mandare le truppe in Sierra Leone per porre fine all'anarchia che allora imperversava. Ragione per cui non gli rinfaccio la sua recente visita a Freetown. Di più: Blair si è profuso in quello che mi è parso uno dei migliori discorsi sull'Africa mai pronunciati da un leader occidentale. «L'Africa — ha scandito il premier britannico — riflette l'esempio più eloquente di una politica estera autenticamente interventista. Per questo credo nella capacità dell'azione politica di costruire un mondo migliore, e nel dovere morale di farvi ricorso». Però. Quasi pare di sentire Wilberforce. Peccato che Blair abbia poi guastato (quasi) tutto, piegandosi al più invalso tra i qui pro quo che, oggi, allignano nelle menti liberali dell'Occidente. Stando al quale sarebbe possibile eliminare la povertà globale e insieme combattere il cambiamento climatico del Pianeta. Ora che persino il presidente Bush pare riconosca il legame tra emissioni di gas serra e surriscaldamento globale, Blair avrebbe fatto bene a dire la verità.
Come l'Asia sta comprovando al di là d'ogni ragionevole dubbio, l'eliminazione della povertà implica un massiccio aumento delle emissioni di diossido di carbonio. L'Africa, di contro, sta oggi contribuendo più di chiunque altro alla causa della difesa ambientale, complice la puntuale incapacità di pervenire a una crescita sostenibile. Chi fosse ancora incredulo, è invitato a controllare il dato relativo alle emissioni di CO2 pro capite. Carta canta: siamo all'ennesima graduatoria che vede l'Africa in coda. Degli ultimi 20 Paesi, nella classifica degli Stati più inquinanti al mondo, non meno di 15 sono africani. Chapeau, Africa! Ecco quel che occorre per salvare il pianeta: un altro secolo di stagnazione in stile africano estesa a tutto il globo, null'altro. La carriera di Wilberforce e quella di Blair lo mostrano sin troppo bene: l'Africa è sempre stata un'eccellente fonte d'aria fritta, specie per bocca di Englishmen d'orientamento evangelico. Grazie al Cielo, emissioni di quel tipo alterano soltanto il clima morale. (© Niall Ferguson 2007 Traduzione di Enrico Del Sero)
Niall Ferguson

lunedì 4 giugno 2007

Un uomo, un mistero. Un muzìk, un genio.

"Soltanto questi due esseri io amo, e uno esclude l'altro. Non posso unirli, e questa è l'unica cosa che mi è necessaria. E se questo non è, allora tutto è lo stesso. E in qualche modo finirà, e perciò non posso, non amo parlarne. Sicchè tu non mi rimproverare, non giudicarmi in nulla. Tu con la tua purezza non puoi capire tutto quello di cui io soffro."

Anna Karenina (1877)

I due uomini sono l'amante e il figlio, ma in un certo senso questo è solo un dettaglio. Bellissimo.